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E. A. Poe
Il cuore rivelatore
Gli elementi dell’analisi

Innanzitutto distinguiamo autore e narratore: l’autore del brano è Edgar Allan Poe, uno scrittore vissuto nell’Ottocento in America; il narratore invece è la voce che ci racconta i fatti accaduti. Nel brano li racconta in prima persona, è dunque un narratore interno, un “io narrante”, che ha vissuto quei fatti da protagonista, come “io narrato”.
La voce dell’io narrante è una voce maschile, agitata e folle, che si rivolge a un pubblico cercando di orientarne il giudizio. Egli vuole che i suoi ascoltatori capiscano bene i fatti che racconta perché, secondo lui, tali fatti dimostrano che egli è sano di mente e ha agito bene. I lettori capiscono subito, però, di avere a che fare con un pazzo.
I racconti come questo – in cui c’è un narratore interno che racconta i fatti, ma è evidentemente strano, malato – lasciano volutamente al lettore moltissimi dubbi (il protagonista sarà veramente un assassino o si è inventato tutto?) e alimentano la suspense, che incatena il lettore alla pagina.
Il testo e l’autore

Un uomo, di cui non ci viene rivelato il nome, ha commesso un tremendo assassinio. Lo ha commesso e lo ha anche confessato alla polizia. Ma non gli basta: quell’uomo è ossessionato dalla necessità di spiegare il suo delitto, perché, a suo dire, questo delitto è comprensibile e non è il gesto di un pazzo, ma un atto di profonda intelligenza.
Lo scrittore statunitense Edgar Allan Poe (1809-1849), riconosciuto maestro dei racconti del terrore, costruisce un personaggio (e un narratore) complesso, torbido, lucidamente folle.
È vero! Io sono nervoso, terribilmente nervoso, lo sono stato e lo sono. Ma pazzo no! E voi pretendete che lo sia. La malattia aveva affilato i miei sensi, non li aveva distrutti, non li aveva offuscati. Acuto più di tutti era l’udito. Io udivo tutte le cose del cielo e della terra. Udivo molte cose dell’inferno. E allora, come posso essere pazzo? Ascoltate attentamente! E osservate con che equilibrio, con che calma posso raccontare tutta la storia.
Mi è impossibile dire come in principio mi sia entrata l’idea nel cervello; ma, una volta che fu concepita, mi perseguitò giorno e notte. Motivo non c'era. Passione non c'era. Ero affezionato al vecchio. Non mi aveva mai fatto un torto. Non mi aveva mai offeso. Non volevo il suo oro. Penso che sia stato il suo occhio! Sì, fu proprio questo! Lui aveva l’occhio di un avvoltoio: un occhio di un azzurro pallido, coperto da un velo. Tutte le volte che si posava su di me, il sangue mi si gelava nelle vene; e così lentamente – molto lentamente – decisi di togliere di mezzo il vecchio e liberarmi così per sempre dell’occhio.
Ecco il punto. Voi mi credete pazzo. I pazzi sono incoscienti. Ma avreste dovuto vedere me. Avreste dovuto vedere con che giudizio mi comportai, con quale prudenza, con quale preveggenza, con quale finzione mi misi all’opera! Non ero mai stato così gentile con il vecchio come durante tutta la settimana prima che l’uccidessi.
Ogni notte, a mezzanotte circa, giravo la maniglia della sua porta e l’aprivo, oh, dolcemente! E poi, quando avevo aperto un varco sufficiente a far passare la testa, introducevo una lanterna cieca, tutta chiusa, così ermeticamente chiusa da non lasciarsi sfuggire neppure un raggio, e poi infilavo il capo. Oh, avreste certamente riso a vedere con quanta arte la infilavo. Lo muovevo lentamente: molto, molto lentamente per non turbare il sonno del vecchio. Impiegavo un’ora a far entrare tutta la testa attraverso l’apertura, tanto da poterlo vedere disteso sul letto. Ah! un pazzo si sarebbe comportato così prudentemente? E poi, quando tutta la mia testa era nella stanza, schiudevo la lanterna piano, molto piano, piano perché i cardini cigolavano; la schiudevo solo quel tanto che bastasse a far cadere un unico sottile raggio sull’occhio di avvoltoio. Per sette notti feci questo, per sette lunghe notti, e tutte le volte a mezzanotte in punto, ma trovai sempre l’occhio chiuso, e perciò mi fu impossibile compiere l’opera, poiché non era il vecchio che mi irritava, ma il suo Occhio Malefico. E ogni mattina, quando faceva giorno, entravo sfacciatamente nella sua camera e gli parlavo con disinvoltura, chiamandolo per nome in modo cordiale e domandandogli come avesse passato la notte. Vedete, avrebbe dovuto essere un vecchio dal finissimo intuito davvero, per sospettare che ogni notte, alle dodici precise, l’osservavo mentre dormiva.

L’ottava notte aprii la porta con una precauzione maggiore del solito. In un orologio la lancetta dei minuti si muove più rapidamente di quanto si muoveva la mia mano. Mai, prima di quella notte, avevo sentito in tutta la sua pienezza l’immenso potere della mia intelligenza. A stento riuscivo a frenare le mie sensazioni di trionfo. E pensare che eravamo lì, io ad aprire la porta poco a poco, lui a dormire, per nulla presago delle miei azioni e dei miei pensieri segreti. Ridacchiai a quell’idea; e forse mi udì; infatti improvvisamente si mosse nel letto come se qualcosa l’avesse fatto trasalire. A questo punto, penserete che io battessi in ritirata e invece no. La sua camera (poiché le imposte erano state serrate per la paura dei ladri), a causa della fitta oscurità era nera come la pece, e così sapevo che non avrebbe potuto vedere il varco della porta, e continuai a spingere, spingere, spingere.
Quando ormai avevo infilato la testa e mi accingevo ad aprire la lanterna, il pollice mi scivolò sulla chiusura di latta, e il vecchio si alzò di scatto sul letto, gridando: “Chi è là?”
Rimasi immobile e muto. Per un’ora intera non mossi muscolo e per tutto questo tempo non l’udii coricarsi. Stava ancora seduto in mezzo al letto, con l’orecchio teso, proprio come ho fatto io, notti e notti, sentendo gli orologi della morte nella parete.
A un tratto udii un gemito sommesso. Lo riconobbi. Era il gemito del terrore mortale. Non un gemito di pena o di dolore, – oh no! – era il suono cupo e strozzato che sale dal fondo dell’anima oppressa dalla paura. Conoscevo bene quel suono. Per sette notti, a mezzanotte precisa, quando tutto il mondo dormiva, era scaturito dal mio petto, sprofondandomi, con la sua eco terribile, nell’ossessione del terrore. Ripeto, lo conoscevo bene: sapevo quello che il vecchio sentiva, e ne ebbi pietà, sebbene in cuor mio ne ridessi malignamente. Sapevo che era rimasto sveglio fin da quando aveva sentito il primo lieve rumore, e si era girato nel letto. Da quel momento le sue paure erano andate sempre crescendo. Aveva tentato di credere che fossero ingiustificate, ma non era riuscito. Si era detto: “Non è nulla, è solo il vento nel camino, un topo che attraversa la stanza”; oppure: “È semplicemente il trillo di un grillo”. Sì, aveva tentato di farsi coraggio con queste supposizioni, ma tutto era stato vano. Sì, tutto era stato vano, perché la Morte, nell’avvicinarsi a lui, gli era passata d’innanzi col suo passo regale, chiusa nella sua ombra nera, e aveva avviluppato la sua vittima. Ed era il funesto influsso della sua ombra invisibile che gli faceva sentire, – sebbene né vedesse, né udisse, – sentire, dico, – la presenza della mia testa dentro la stanza.
Attesi a lungo, con molta pazienza, ma non l’udii coricarsi. Decisi, alla fine, di aprire una piccola, piccolissima fessura alla luce. Così aprii la lanterna, furtivamente, tanto furtivamente da non potervelo immaginare, e, alla fine, sottile come il filo del ragno, un unico pallido raggio balenò dalla fessura e cadde sull’occhio di avvoltoio.
Era aperto, sbarrato, dilatato. Lo fissai, e a fissarlo divenni furioso. Lo vedevo distintamente, perfettamente: tutto di azzurro opaco, con un raccapricciante velo sopra, che ghiacciava perfino le midolla nelle mie ossa. Della faccia o della persona del vecchio non riuscii a vedere nient’altro, poiché avevo diretto il raggio, quasi per istinto, esattamente sul punto maledetto.
Vi ho già detto che ciò che voi scambiate per follia, in me non è altro che straordinaria acutezza dei sensi. Ebbene, in quel momento giunse alle mie orecchie un suono sordo, cupo, rapido, e intermittente, simile a quello di un orologio chiuso in un viluppo di cotone. Conoscevo bene anche quel suono. Era il battito del cuore del vecchio. E accrebbe il mio furore, come il rullar di un tamburo eccita il coraggio dei soldati.
Ma non persi nemmeno allora il controllo e rimasi immobile. Respiravo appena. Non mossi la lanterna per non spostare nemmeno di un millimetro il raggio che illuminava l’occhio. Frattanto, il tamburo infernale del suo cuore batteva la marcia con un crescendo sempre più precipitoso, sempre più forte. Il terrore del vecchio doveva essere giunto al parossismo! A ogni istante si faceva più acuto, ripeto, sempre più forte! Mi prestate attenzione? Vi ho detto che sono nervoso: lo sono. Ebbene, in quell’ora morta della notte, nel silenzio agghiacciante di quella casa, quel rumore così strano scatenò in me un inferno di terrori. Eppure, per qualche minuto mi controllai e rimasi immobile. Ma il battito si faceva più forte, sempre più forte! Credetti che il cuore dovesse scoppiare. E allora un’altra angoscia m’invase: che quel rumore potesse essere udito da qualche vicino di casa. L’ora del vecchio era suonata. Con un urlo spalancai la lanterna e mi precipitai nella camera. Gridò, ma non ebbe il tempo di farlo due volte. In un attimo lo tirai giù sul pavimento e gli rovesciai addosso il letto con tutto il suo enorme peso. Poi sorrisi di gioia: il più era fatto. Il cuore, tuttavia, continuò a battere ancora per qualche minuto con un suono ovattato. Questo, comunque, non destò la mia preoccupazione: nessuno avrebbe potuto sentirlo attraverso la parete. Finalmente tacque. Il vecchio era morto. Rimossi il letto ed esaminai il cadavere. Sì, era stecchito, morto stecchito. Posi una mano sul suo cuore e ve la tenni parecchi minuti. Nessuna pulsazione. Era morto stecchito. Il suo occhio non mi avrebbe ossessionato più.
Se credete ancora che io sia pazzo, non lo crederete più, quando vi avrò detto con che precauzione feci sparire il cadavere. La notte precipitava e io lavorai di buona lena, ma silenziosamente. Prima di tutto sezionai il corpo. Staccai la testa, le braccia, le gambe. Poi rimossi tre assi dal tavolato della camera e sistemai tutto fra le travature. Poi rimisi a posto le tavole con una perizia così magistrale che nessun occhio umano, – nemmeno il suo – avrebbe potuto scoprirvi qualche difetto. Infine non c’era niente da lavare, né macchie di alcun genere, né tracce di sangue. Ero stato veramente bravo. Ci aveva pensato una tinozza a raccogliere tutto.

Mi sbrigai che erano le quattro. Fuori era ancora buio come a mezzanotte. Mentre la campana sonava le ore, fu bussato alla porta di strada. Scesi ad aprire senza la minima emozione. Infatti, che cosa avrei avuto da temere, ormai? Entrarono tre uomini, con la più grande gentilezza si presentarono come ufficiali di polizia. Un grido era stato udito, durante la notte, da un vicino; si era temuto qualche delitto; una denuncia era stata presentata al commissariato, ed essi (i tre ufficiali) erano stati incaricati di fare un sopralluogo nella casa.
Sorrisi: che cosa avevo da temere? Diedi il benvenuto ai signori. Il grido, dissi, era il mio, tutta colpa di un sogno. Il vecchio, feci notare, era assente, in campagna. Accompagnai i visitatori per tutta la casa. Li invitai a cercare, a cercare bene. Alla fine, li guidai nella sua camera. Mostrai loro i suoi tesori, al sicuro, intatti. Nell’entusiasmo della mia sicurezza, portai delle sedie nella stanza, e li pregai di riposarsi qui dalle loro fatiche, mentre io, reso temerario dal trionfo perfetto, posi la mia sedia proprio sul punto sotto il quale riposava il cadavere della vittima.
Gli ufficiali erano soddisfatti. Le mie maniere li avevano convinti. Io mi sentivo profondamente euforico. Sedettero e chiacchierarono del più e del meno, mentre io rispondevo spiritosamente. Ma ecco che a un tratto mi sentii impallidire e desiderai che se ne andassero. Mi faceva male la testa, e mi pareva di avere nelle orecchie un tintinnio. Ma quelli continuavano a starsene seduti e a chiacchierare. Il tintinnio si fece più distinto; continuava e si faceva più distinto: io, per liberarmi da quella sensazione, ciarlavo e ciarlavo: ma il suono continuava, si caratterizzava, finché mi accorsi che non era dentro alle mie orecchie.
Allora, senza dubbio, divenni molto pallido; ma parlavo, un fiume di parole, ad alta voce. Tuttavia il rumore cresceva. Che cosa potevo fare? Era un suono sordo, cupo, rapido e intermittente: un suono molto simile a quello di un orologio chiuso in un viluppo di cotone. Mi sentivo soffocare e tuttavia i poliziotti non lo udivano. Parlai in fretta, con più veemenza, ma il rumore cresceva con ostinata regolarità. Mi alzai e parlai di banalità, strillando e gesticolando con violenza. Ma il rumore cresceva con ostinata regolarità. Perché non volevano andarsene? Misurai il pavimento a passi larghi e pesanti, come se le osservazioni dei tre uomini avessero esasperato il mio furore. Ma il rumore cresceva con ostinata regolarità. Oh Dio! Che cosa potevo fare? Con la bava alla bocca, farneticai, imprecai! Smossi la sedia sulla quale sedevo e la sfregai sull’assito, ma il rumore copriva tutto e cresceva senza tregua. Diventava più forte, più forte! E i tre uomini chiacchieravano ancora piacevolmente e sorridevano. Era possibile che non udissero? Dio Onnipotente!... No, no! Essi udivano!... sospettavano!... sapevano! si prendevano beffa del mio orrore!... Così credetti, e così credo. Ma qualunque cosa era preferibile a quel supplizio! Qualunque cosa era più sopportabile di quello scherno! Non potevo sopportare più quei loro sorrisi ipocriti! Sentii che dovevo gridare o morire! E adesso – di nuovo! – Ascoltate! più forte! più forte, più forte! più forte!
“Maledetti” urlai “Basta con questa commedia! Confesso tutto! Tirate su le tavole! Qui! Qui!... È il battito del suo terribile cuore!”


E. A. Poe, I racconti, trad. it. G. Sardelli, Feltrinelli, Milano 1980